L’illusione del merito

Il merito è ciò che rende qualcuno degno di lode, stima o ricompensa. Consiste in azioni (fare qualcosa di buono) o omissioni (non fare nulla di cattivo) in conseguenza delle quali ci si aspetta un ritorno positivo. Il concetto di merito lo impariamo prestissimo. Se si vuole che i bambini si comportino in un certo modo, si promette loro un premio come conseguenza di un determinato comportamento. È mito di Babbo Natale che porta giocattoli ai bambini buoni (meritevoli) e carbone a quelli cattivi.

Nella vita di tutti i giorni capita a chiunque di prendere decisioni basate sul merito. Anche il commercio, se vogliamo, è una forma di valutazione meritocratica. Ritengo che la merce propostami, per le sue qualità (materiali, quantità, utilità, plusvalore, eccetera), sia meritevole della spesa.

Il concetto di merito è parte indiscussa del nostro bagaglio psico-socio-culturale: lo consideriamo un criterio selettivo logico, affidabile e largamente condiviso. Il governo Meloni ha addirittura istituito un ministero ad hoc. Tutto bene, allora? No. A quanto pare non tutto è così cristallino intorno al merito. Si fa oggi (e non da oggi) un gran parlare di merito. Cosa c’è che non va?

Non va che, così come è intuitivo il concetto di merito, lo è altrettanto il fatto che esso perde di senso di fronte alla divisione in classi. Tutti capiscono, infatti, che per quanto meritevole possa essere un bambino povero, difficilmente Babbo Natale gli porterà dei giocattoli costosi quanto quelli che si è meritato un bambino ricco. Il bambino povero e il bambino ricco sono stati entrambi molto bravi, però quello ricco riceve una palystation, quello povero una bambola di pezza. Senza contare che per un bambino povero è molto più faticoso compiere buone azioni rispetto al suo omologo ricco. Il bambino povero potrebbe aver bisogno di rubare cibo per sfamarsi. E allora che si fa? Si premiano i ladri anziché punirli?

L’articolo 3 della Costituzione – fondamento stesso della nostra convivenza democratica – affronta il problema e pone come obiettivo della Repubblica quello di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». I padri costituenti avevano ben chiaro che anche il più meritevole, se è povero, è un soggetto limitato. Il compito della Repubblica non è perciò quello di favorire i meritevoli e basta, bensì quello di rimuovere gli ostacoli economici affinché ogni meritevole emerga. Alla Repubblica stanno a cuore TUTTI i meritevoli, ricchi e poveri, non solo quelli che se lo possono permettere. La parola chiave per la Costituzione non è «meritocrazia», ma «UGUAGLIANZA». Solo l’uguaglianza, ovvero (come diciamo oggi che affatichiamo la lingua italiana alla ricerca di concetti innovativi dietro parole ridondanti) solo le «pari opportunità» garantiscono che la corsa al merito non sia falsata da una linea di partenza sbilanciata.

Se, dunque, l’uguaglianza è la componente basilare senza la quale la meritocrazia è inattuabile, basta fare quello che comanda l’articolo 3 della Costituzione e avremo risolto il problema. Giusto? Sì, giusto, ma anche impossibile, perché abbiamo optato per un sistema economico-sociale che, a dispetto dei buoni propositi dell’articolo 3 ritiene legittime le disuguaglianze e, anzi, le promuove.

Vivendo in una società capitalista, riteniamo legittimo che qualcuno possegga più denaro di altri. Per la verità, non solo lo riteniamo legittimo, siamo profondamente convinti che ciò sia giusto. Anzi, siamo così convinti che il denaro vada distribuito difformemente fra gli individui, che quelli che ne hanno di più (i ricchi) molto spesso li consideriamo automaticamente meritevoli di detenere maggior potere. Se qualcuno ha fatto fortuna, vuol dire che se l’è meritato. Non ci chiediamo come, non ci chiediamo perché, non ci chiediamo se ha ereditato il suo «merito»: è ricco, tanto basta.

Come si fa allora in una società capitalista, e quindi strutturalmente classista, a rispettare l’articolo 3? Esiste veramente il merito in una società in cui convivono i ricchi e i poveri? Secondo una certa mentalità politica emersa prepotentemente dal berlusconismo in poi, sì, è possibile. I ricchi (di destra e di sinistra), per illudere i poveri, l’hanno chiamata «meritocrazia».

La parola meritocrazia (brutta pure a pronunciarla: evoca asprezze naziste) si è imposta in Italia a partire da una trentina di anni fa quando, dopo tangentopoli e la distruzione del sistema dei partiti, gli italiani non vedevano l’ora di diventare come gli americani, cioè con due soli partiti divisi su tutto ma accomunati dalle fondamenta liberiste. Dopo trent’anni ce l’abbiamo fatta! La metà degli italiani è di destra, l’altra metà è di sinistra, ma tutti si inchinano al potere dei soldi: chi ce li ha comanda.

Meritocrazia indica un sistema di distribuzione del potere in cui chi più si impegna, più riceve. È un sistema che esiste solo in teoria. Nella pratica, a parità di impegno, il figlio del ricco ha sempre più possibilità del figlio del povero: migliori insegnanti, migliori università, ma anche migliori campi da gioco, migliori musei, migliori relazioni, eccetera.

I ricchi di destra dicono: non ci possiamo fare niente, il mondo va così, però sappiate che noi siamo buoni e faremo abbastanza beneficienza da consentire ai poveri meritevoli di emergere (ovviamente, chi siano i meritevoli lo decidono loro in base a criteri che garantiscano una continuità: i conservatori). Ai ricchi di destra conviene che ogni tanto qualche povero abbia successo e racconti la sua favola di come si è meritato di diventare ricco, perché serve a gestire l’insoddisfazione del restante 99% che non ce la farà mai: da un lato li convince che è possibile scalare le vette della società, dall’altro sviluppa un utilissimo senso di colpa delle classi subalterne le quali si convincono sempre più che se sono povere è perché se lo sono meritato.

I ricchi cosiddetti di sinistra affermano: niente beneficenza, diritti per tutti. Bisogna garantire pari opportunità. I poveri devono avere le stesse possibilità di successo dei ricchi. Come? Per esempio, con borse di studio, sgravi fiscali, migliore scuola pubblica. Sembra giustizia sociale, invece è un tranello. Riconoscere più diritti ai poveri non serve a nulla se i criteri di selezione delle classi dirigenti (a livello economico e politico) prescindono dai risultati. Senza un concreto aggancio tra merito scolastico e posizioni di potere, i ricchi garantiscono ai figli dei poveri solo l’illusione di poter conquistare meritocraticamente delle posizioni che i propri figli invece raggiungono semplicemente per nascita. Nelle società capitaliste, la ricchezza è una proprietà di cui il titolare dispone a piacimento. Il ricco non è obbligato a trasferire le sue sostanze al più meritevole. Il capitale non si perpetua per via di merito, ma per indiscutibile atto di volontà.

Si tratta di una questione strutturale: fino a quando la ricchezza (alias potere) sarà un diritto trasmissibile, una società capitalista non sarà mai meritocratica. Una platea enorme di poveri teoricamente meritevoli (grazie a studio, impegno e sacrifici) deve arrendersi a una piccola élite di ricchi che si tramanda il potere secondo criteri di convenienza, il più delle volte familistici. A prescindere dal merito, i figli dei ricchi ereditano le attività di famiglia e nessuno[1] oggi oserebbe teorizzare che sia giusto espropriali per affidarle ai più meritevoli.

Una certa cultura politica, fondamentalmente ipocrita, nascondendosi dietro il mito delle «pari opportunità», si propone di affrontare il malcontento delle classi subalterne attraverso un nuovo ricorso all’illusione meritocratica. Riforma dell’università, sgravi fiscali, incentivi allo studio, merito scolastico: minestre già viste e magari rimodulate in forme più accattivanti. Ma chiediamoci: il problema è davvero la scuola? Se così fosse, se la scuola è davvero all’origine di tutti i mali, da dove sono uscite le migliaia di giovani cervelli costretti a emigrare per trovare un lavoro decente? Dall’uovo di Pasqua? Quei cervelli, apprezzatissimi all’estero, vengono fuori da quello stesso sistema scolastico/universitario tanto criticato dai ricchi (di destra e sinistra) che sui giornaloni e sulle televisioni di loro proprietà esercitano un massacrante lavaggio del cervello. Delle due l’una: o la scuola fa schifo e allora non si capisce perché all’estero i nostri giovani hanno successo; o la scuola va bene e allora il problema dei giovani non è la loro preparazione ma il fatto che le posizioni che meriterebbero di occupare sono già occupate dai figli e dai nipoti dei potenti.

Ancora una volta: il problema non è (sempre) la preparazione, è (quasi sempre) la diseguaglianza. I figli dei poveri non sono più stupidi, sono solo più poveri.

Soluzioni? A livello sistemico, non ce ne sono. Il capitalismo non consente il corretto sviluppo di processi meritocratici. Bisogna arrendersi alla realtà: il merito è un’illusione. Serve solo a convincere la massa che la sua condizione subalterna è ciò che effettivamente le spetta per merito. Serve, al contempo, per legittimare l’accumulo di grandi ricchezze nelle mani di pochi attraverso il lavacro morale delle università.

Se a livello di sistema bisogna rassegnarsi, a livello individuale la soluzione esiste: privare il denaro del potere di misurare il merito; convincersi che i ricchi non sono più meritevoli, sono solo più ricchi; smetterla di avere quale unica ambizione nella vita quella di arricchirsi; smetterla di scegliere lavori e carriere sgradite ma potenzialmente remunerative; assecondare le proprie inclinazioni senza paura, a prescindere dal grado di remuneratività presunta che esse garantiscono. Sembra poco, ma non lo è. Bisogna trovare la capacità di riconoscere il merito a prescindere dalla ricchezza o dalla capacità di produrre reddito. L’Uomo non è solo ciò che produce, tanto meno ciò che accumula.


[1] Quasi nessuno

Pubblicato da Raffaele di Biase

Lettore, scrittore, avvocato.

Lascia un commento

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora